
“Dove giunge una fontana, lì giunge anche la civiltà.”
Plinio il Vecchio
Nella Città Alta di Bergamo, un tempo sorgeva una fonte preziosa: la Fontana del Vàgine. Questa antica sorgente, oggi asciutta, fu per secoli una risorsa fondamentale per gli abitanti della città.
La sua esistenza è documentata fin dal 995, ma alcuni studiosi ritengono che fosse nota già in epoca romana, a conferma della sua lunga e silenziosa presenza nella storia bergamasca.
Il nome, curioso e arcaico, deriverebbe dal “vagìto” dei neonati: si racconta infatti che, in tempi lontani, esistesse un rito d’iniziazione che prevedeva l’immersione dei bambini nelle acque della vasca vicina, come gesto propiziatorio per la vita che iniziava. È una leggenda affascinante, che conferisce un alone di mistero e sacralità al luogo.
La fontana era considerata un’opera di grande pregio. I suoi ambienti erano decorati con rivestimenti in marmo: le volte, i pavimenti e le pareti riflettevano la purezza dell’acqua. Si credeva che le sue proprietà fossero benefiche per la salute, tanto che, nel 1248, la Municipalità di Bergamo emanò un regolamento specifico per il suo utilizzo e la manutenzione.
Nel corso del Medioevo e del Rinascimento, Bergamo adottò norme che vietavano la presenza delle prostitute in prossimità delle fontane pubbliche.
Un esempio è un’ordinanza del 1504, che proibiva alle meretrici di sostare presso la fontana della Boccola. La loro presenza scoraggiava le donne oneste, come serve e cittadine, dal recarvisi. Le pene per chi trasgrediva erano dure: fustigazione, berlina e un mese di carcere. È presumibile che tali divieti valessero anche per la Fontana del Vàgine.
Oggi restano solo le tracce di quella fonte. Prosciugata e trascurata, sopravvive nell’ombra dei vicoli. Eppure, racconta un frammento del passato di Bergamo che merita di essere riscoperto.
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